Il petrolio amaro dell’Adriatico. Ma quanto è sporco questo petrolio low cost!

In due convegni, tenuti a Peschici e a Foggia, la prof. Maria Rita D’Orsogna illustrò i danni di carattere ambientale e territoriale provocati dalle attività petrolifere di esplorazione e perforazione off-shore.

Fanghi perforanti, onde sonore, benzene, acido solfidrico: sono tanti gli inquinanti che durante la vita di una piattaforma “avvelenano” gli ecosistemi circostanti. Danni all’ecosistema marino e litoraneo, lesioni organiche gravi alle persone, idrogeno solforato nell’atmosfera…

Tutto questo per estrarre petrolio di qualità scadente, come quello presente nei fondali dell’Adriatico. Allora cosa attrae le compagnie? Forse l’esiguità della royalty! La quota a favore della Stato sul valore dell’estratto in Italia era del 4% (oggi è arrivata a 7%, ma solo se si estrae un certo quantitativo di petrolio, altrimenti l’aliquota non scatta), mentre negli altri paesi arriva anche all’80%.

I miseri ritorni economici non ripagano i sacrifici della popolazione e ambientali, soprattutto se vengono pregiudicati aspetti paesaggistici unici e risorse ambientali fondamentali, da valorizzare nelle attività turistiche.

MA QUANTO È SPORCO QUESTO PETROLIO LOW COST

Maria Rita D’Orsogna, docente di Matematica Applicata e ricercatrice dell’ Istituto per la Sostenibilità California State University at Northridge di Los Angeles, invitata dai comitati spontanei antitrivellazioni alle Tremiti, ha presentato a Peschici le “Osservazioni relative ai progetti e alle “Istanze di permesso di ricerca per idrocarburi in mare”.

Le osservazioni della ricercatrice non sono specifiche delle Tremiti, ma sono relative a studi condotti su progetti simili presentati o realizzati lungo la costa abruzzese, nel tratto Ortona-Vasto. In un’area, quindi, molto vicina.

Com’è noto la corsa all’oro nero ha scatenato in tutto il Pianeta frenetiche attività di ricerca e di estrazione sulla terraferma e off shore nei fondali marini da parte delle compagnie petrolifere. Durante la ricerca sono previste tre fasi: l’ispezione geologica; l’ispezione sismica con navi specializzate che praticano spari di aria compressa in mare secondo la tecnica dell’airgun; l’eventuale perforazione di pozzi esplorativi.

D’Orsogna sottolinea come nelle istanze per ottenere l’autorizzazione ministeriale si tenda a spostare l’attenzione sulle tecniche di ispezione sismica piuttosto che su una visione globale di rischi e di stravolgimenti ambientali che possono comportare.Quasi mai viene analizzato il terzo punto, quello più impattante, ossia l’installazione di pozzi esplorativi, temporanei ma con possibilità che diventino permanenti. Si tende, in merito, a limitare il tutto ad una trattazione margini, superficiale e sbrigativa. Ma non in tutti i Paesi è così. Sul sito ufficiale del governo Norvegese, per esempio, sono messi in evidenza i forti rischi di inquinamento dovuti all’attività petrolifera. Si afferma infatti, senza se e senza ma, che «Non è possibile per l’industria del gas e del petrolio di operare efficientemente senza utilizzare grandi quantità di sostanze chimiche».

Diverse sono le criticità ambientali individuate da Maria Rita D’Orsogna, che sono illustrate in funzione della causa che le determina. I danni maggiori si verificano durante la fase di perforazione del pozzo, quando vengono rilasciate svariate sostanze chimiche, tra cui gli scarti di trivellazione che si depositano nei fondali prossimi alle piattaforme. Ma le particelle più fini sono trasportate anche a notevoli distanze dalle correnti.

La tecnica di ispezione denominata “airgun” ha un elevato impatto negativo sulle specie acquatiche. Essa consiste nell’uso di navi attrezzate che generano potenti onde sonore in mare con lo sparo di aria compressa.

E’ così, grazie ai segnali riflessi, che si acquisiscono dati sulle formazioni geologiche sotterranee. Oltre a provocare mortalità a distanze ravvicinate, lo “sparo” di airgun (200-250 decibel) invia nell’acqua un suono che viaggia circa quattro volte più in fretta che nell’aria, per cui le onde si diffondono a vasto raggio, anche a 100 chilometri.

Gli studi già eseguiti hanno stimato cali fra il 45% ed il 70% del pescato di alcune specie, fra cui i merluzzi, in un raggio di quaranta miglia nautiche dai siti interessati alle ispezioni. I suoni delle sorgenti acustiche a bassa frequenza e ad alta intensità, quali quelli airgun, possono infatti danneggiare sistemi riproduttivi (danni alle uova e alle larve), tessuti e udito. Poiché la maggior parte dei pesci “localizza” attraverso il suono, la perdita dell’udito ha forti conseguenze negative nella ricerca di prede o di altri esemplari per l’accoppiamento. Non sono da escludere, in proposito, correlazioni tra spari  airgun e spiaggiamenti di delfini, balene, tartarughe.

Un fattore essenziale e determinante della non ecosostenibilità delle piattaforme è rappresentato dalla composizione chimica dei materiali usati durante la trivellazione, oltre che dalla loro quantità. I fanghi e i fluidi generalmente usati per la perforazione dei pozzi sono di tre categorie: a base di oli minerali; a base di acqua; sintetici. I primi, a base di gasolio e di condensati di idrocarburi, sono i più economici ma sono estremamente dannosi. I secondi sono meno tossici, ma sono più costosi e non particolarmente efficaci, specialmente quando si trivella in profondità. I  fluidi sintetici sono un compromesso fra i due. Poiché negli scavi a grandi profondità l’efficacia dei fanghi è ridotta, è del tutto plausibile supporre che vengano impiegati fanghi perforanti molto aggressivi, a base di gasolio e di oli minerali.

Si tratta di polimeri con basso tasso di biodegradabilità. Su scala millenaria, si sa, tutto è biodegradabile. Ma possiamo accontentarci di questa certezza?

Durante l’arco della vita di un sito petrolifero “coltivato”, gli scarichi in mare di sostanze chimiche di lavorazione – accidentali o volontarie, dai pozzi esplorativi o permanenti –, sono pressoché inevitabili e sono stimati tra 30 e 120 tonnellate. Si calcola che dall’insieme delle attività esplorative ed estrattive offshore, ogni anno vengano rilasciate nel mare Mediterraneo circa 300.000 tonnellate di petrolio e altro materiale di scarto. Per farsi un’idea basti pensare alle perdite della piattaforma Deepwater Horizon in Louisiana.

Ma ci sono casi anche nelle nostre zone, anche se meno eclatanti. Nelle acque abruzzesi antistanti Ortona, durante l’estate del 2008, dopo solo due mesi di permanenza di un pozzo esplorativo la qualità dell’acqua marina prossima ad esso è diventata torbida, densa e melmosa.  Su scala Icram, che va da 0 (assenza di inquinamento)  fi no a 12 (inquinamento massimo), è scesa da “alta” a “media” cadendo nell’intervallo da 3 a 6. In questo caso, la torbidità e l’inquinamento delle acque sono state testimoniate da varie squadre di sub che si sono recati a fare immersioni nelle vicinanze della piattaforma, in acque legalmente accessibili. I sommozzatori hanno riferito di un denso agglomerato di sostanze appiccicose e irritanti per la pelle e di visibilità limitata.

In questi casi, mentre le sostanze di scarto più pesanti sedimentano subito, quelle più leggere molto spesso vengono trasportate su lunghe distanze rispetto alle zone di emissione, anche a decine di chilometri. Nel mare Mediterraneo, e nell’Adriatico in particolare, che sono sistemi chiusi e a fondali bassi, con lenta circolazione delle acque, le particelle di raggio inferiore agli 0,01 mm generate dalle piattaforme possono viaggiare sospese nell’acqua anche per anni, con conseguenti vaste zone di torbidità, più persistente in prossimità delle piattaforme di perforazione.

Tutti i fenomeni descritti, su scala ancora maggiore, si verificano anche durante la stesura degli oleodotti, la costruzione di isole artificiali, il dragaggio dei fondali e altre attività connesse a quelle petrolifere.

Ma le società petrolifere non offrono alcuna analisi del rischio né quantificano numericamente queste possibilità.

Un capitolo a parte è quello delle emissioni in atmosfera. Le società proponenti di solito allegano tabelle ed elenchi generici, dove si elencano i limiti di soglia e di controllo delle sostanze, senza precisare né quantificare le emissioni dei progetti specifici. Ma è certo che le piattaforme in Adriatico, per via delle caratteristiche del greggio che estraggono, hanno rilevanti emissioni di idrogeno solforato (detto anche acido solfidrico o solfuro di idrogeno). Non si può tacere, quindi, sul come si procederà allo smaltimento di questo gas, che sarebbe demenziale rilasciare in atmosfera.

L’acido solfidrico, dal caratteristico acre odore di uova marce, è un veleno ad ampio spettro. A dosi sufficientemente elevate causa l’asfissia di pesci e persone. In occasione della pulitura di cisterne a Molfetta e a Catania, nel 2008 sono morte otto persone a causa dell’idrogeno solforato. La soglia d’allarme, secondo i  progettisti è di 10 ppm. Per l’Organizzazione Mondiale è la metà (!).

Ne va trascurato, oltre al rilascio nell’atmosfera, il rischio di bolle o perdite direttamente nel sottosuolo e nel fondale marino. La presenza dei mezzi e delle strutture in mare, sia nelle fasi di installazione e perforazione che di esercizio, sarà visibile a distanza e anche dalla costa.

Si genera un impatto visivo negativo stimato in base all’intensità del “disturbo” e dalla sua durata. Pertanto l’impatto visivo, non potenziale ma certo, costituisce un elemento di disturbo per la fruizione del paesaggio che, considerata la particolare morfologia della zona costiera – nel Gargano rilievi con lunga vista nel mare – possono pregiudicare l’amenità e il panorama di aree molto vaste.

Proseguendo con sistematicità nei suoi rilievi, D’Orsogna evidenzia che nello studio presentato dalla Petroceltic, per esempio, non viene fatto alcun riferimento alla possibile subsidenza della costa. Eppure nel delta del Polesine le attività estrattive durante negli anni ’60 hanno portato alla subsidenza del fondale marino di circa tre metri.

Nella città di Ravenna le estrazioni di acqua e di metano hanno causato ad un abbassamento del suolo di circa un metro e mezzo.

Uno studio puntuale e meticoloso deve considerare questi riflessi, visto che i bacini del centro e del sud dell’Adriatico, formatisi durante i periodi del Neogene e del Quaternario, sono caratterizzati da forte subsidenza nelle loro parti centrali, che diminuiscono gradualmente verso i confini a sud-ovest ed a nord-est.

Per quanto possa apparire banale, sottolinea la ricercatrice californiana, in fase di autorizzazione non si parla delle conseguenze di possibili scoppi, né di come la presenza di eventuali petroliere andrà a interferire con le attività turistiche e naturalistiche delle zone interessate. Non vengono menzionati effetti reali sulla pesca, sulla stabilità dei fondali marini e sull’inquinamento delle acque.

Tutti abbiamo memoria del recente incidente della piattaforma al largo della Louisiana e della devastazione ambientale che ha causato.

Ebbene, un evento simile, anche di minore portata, se accadesse ad una piattaforma in Adriatico, in un mare poco profondo ed a poca distanza dalla costa, sarebbe molto più catastrofico. Non si avrebbe infatti il tempo di arginarlo ed impedire che invada il litorale.

Negli Stati Uniti è vietato, perciò, in via precauzionale, trivellare in tutti i cinque grandi laghi, la cui superficie è pari o maggiore a quella dell’Adriatico.Lungo tutta la costa atlantica e pacifica degli Usa (California, Florida, Oregon, Maine, Washington, North Carolina, Massachusetts, New York, New Jersey, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut, Delaware, Virginia) il limite imposto è di ben 100 miglia dalla costa. I siti abruzzesi e delle Tremiti sarebbero distanti dalla costa solo 15-20 miglia.

I rischi prospettati possiamo definirli potenziali? O si tratta di un eufemismo, essendo quasi certi o altamente probabili come l’esperienza dimostra? Rischi che si chiede alle popolazioni di sopportare anche senza la certezza della convenienza economica dei progetti. Un sito del vicino mare abruzzese, ad esempio, è stato considerato antieconomico e abbandonato perché il petrolio estratto era di indice API 12, con un forte carico

di acque di produzione. Con buone probabilità anche il petrolio dei siti contestati è di altrettanta bassa qualità, di tipo pesante ed amaro, notoriamente molto sporco ed inquinante.

La strategia dell’Europa in materia di energia è di incentivarne la produzione da fonti rinnovabili. L’Italia è molto indietro rispetto agli altri paesi europei: la Germania, paese poco assolato, produce 2,220 GW-ore di energia solare l’anno, l’Italia solo 35. Il piano nostrano di valorizzazione delle risorse interne di idrocarburi, si dimostra alquanto anacronistico e fuori tendenza.

L’Italia, il giardino del mondo, dovrebbe proteggersi e invece consente ai petrolieri stranieri di trivellare le nostre acque senza avere in cambio nessun reale beneficio per le popolazioni. Le royalties sono infatti fra le più basse del mondo occidentale. Il dato incontrovertibile è che in tutti i posti del mondo caratterizzati dalla presenza di infrastrutture petrolifere, la qualità della vita diminuisce.

È essenziale considerare, nei singoli casi, il contesto socio-economico-paesaggistico in cui il sito petrolifero verrà ad inserirsi. Nel caso particolare, la costa garganica e le Tremiti fanno parte del Parco Nazionale e della Riserva naturale.

Che altro aggiungere!

Teresa Maria Rauzino 

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